December 13, 2024
L’Arabia Saudita, presa dalla sua ossessione per la “minaccia iraniana”, che la porta ad adottare un atteggiamento bellicista nei confronti della Siria, si comporta come un elefante in un negozio di porcellane, perturbando seriamente un ambiente politico già molto delicato nel mondo arabo. Innesca quello che George Joffé, ricercatore presso il Centro Studi Internazionali all’Università di Cambridge, ha descritto il 30 dicembre scorso come la “seconda guerra fredda araba”, considerando la prima quella condotta dall’Arabia Saudita nel 1960 contro il panarabismo egiziano di Gamal Abdel Nasser.
Il regno saudita è ormai sull’orlo dell’isolamento politico. Con la sua propensione ad assumere una posizione isolata nel conflitto siriano, l’Arabia Saudita è stata costretta in un vicolo cieco inestricabile per quanto attiene la sua politica estera, che la pone in contrasto con tre superpotenze, una delle quali è, accanto a Russia e Cina, l’alleato strategico statunitense, oltre alle potenze regionali come Iran, Iraq, Egitto e Algeria che auspicano una soluzione politica del conflitto.
Anche nell’ambito del Consiglio di Cooperazione degli Stati arabi del Golfo (CCG), composto da sei stati membri, il regno saudita non si conduce meglio. E’ in disaccordo con il Qatar per il sostegno che fornisce ai Fratelli Musulmani (FM). Di conseguenza, i due stati sono in contrasto sul rovesciamento di Mohamed Morsi, dei FM.
L’ostilità dell’Arabia Saudita contro i FM e la sua propensione a favorirne la rimozione dal potere in Egitto hanno anche inasprito i rapporti con la Turchia. Ciò ha ripercussioni in Siria con la riorganizzazione dei principali movimenti politici e militari insurrezionalisti rivali che pretendono di rappresentare il popolo siriano: i principali leader e organizzazioni supportate dal Qatar e dalla Turchia sono stati sostituiti da altri, fedeli al regno saudita. Di conseguenza, l'”Esercito Siriano Libero”, per esempio, è semplicemente scomparso, sostituito dal Fronte Islamico.
All’ultimo vertice del CCG in Kuwait, gli altri cinque stati membri, in particolare l’Oman, hanno respinto la proposta del regno saudita di trasformare il “Consiglio di Cooperazione” in confederazione.
Nonostante che l’Arabia Saudita abbia incanalato qualche miliardo di dollari americani al governo provvisorio post-Morsi al Cairo, l’Egitto non condivide le opinioni di Riyadh sulla questione siriana, a proposito della quale si è allineata ai sostenitori della soluzione politica, sia nelle relazioni con la Russia, che l’Egitto si appresta a ristabilire per bilanciare i suoi legami con Stati Uniti.
Secondo il Wall Street Journal online, nella sua edizione del 5 gennaio scorso, la situazione chiude la “Casa Bianca in un dilemma diplomatico sempre più grande nella misura in cui i suoi alleati nella regione si dividono in campi rivali”.
L’inclinazione degli USA per la via diplomatica anziché per lo scontro militare con Teheran e Damasco, ha finito per isolare il regno saudita sul piano politico. L’Arabia Saudita si era preparata per un intervento militare dell’Occidente, guidato dagli Stati Uniti o con la benedizione di questi ultimi. Ha visto quindi traditi i suoi propositi dall’alleato strategico americano. Per lungo tempo, il regno saudita ha erroneamente creduto che i marines statunitensi fossero a sua disposizione, come soldati mercenari pronti a combattere in guerre che avesse deciso di intraprendere, disposto a pagarne il prezzo, senza comprendere che gli Stati Uniti pensavano il contrario.
L’Arabia Saudita a questo punto avrebbe potuto saggiamente fare marcia indietro e imboccare la stessa direzione degli Stati Uniti. Invece, ha persistito nella sua decisione di “andare avanti da soli”.
In un articolo d’opinione pubblicato il 19 dicembre sul New York Times, il principe Nawaf bin Abdulaziz al-Saud, ambasciatore saudita nel Regno Unito, ha dichiarato che il suo Paese “farà da solo” contro la Siria e l’Iran, perché “non starà a guardare” mentre gli Stati Uniti minano la sua sicurezza “mettendo in pericolo la stabilità della regione”.
Tuttavia, “nonostante le immense ricchezze detenute dal regno saudita, questi non è in grado di far fronte da solo alle gravi minacce del suo ambiente strategico” ha sostenuto sulle colonne del quotidiano Haaretz del 25 dicembre, Yoel Guzansky, ex coordinatore per le questioni relative all’Iran nel Consiglio di Sicurezza Nazionale di Israele, aggiungendo che “per quanto riguarda l’Iran, nessuna altra grande potenza è attualmente interessata o in grado di sostituire gli Stati Uniti nel suo ruolo di deterrenza e di protettore dell’Arabia Saudita contro l’Iran”.
Il Wall Street Journal online ha riportato nella sua edizione del 29 dicembre che alla fine della scorsa estate, l’Arabia Saudita aveva fornito armi e altri equipaggiamenti per 400 milioni dollari ai jihadisti salafiti siriani.
Secondo Martin Nesirky, portavoce del Segretario generale della Nazioni Unite Ban Ki Moon, i maggiorenti diplomatici americani e russi, John Kerry e Sergey Lavrov, si sono incontrati prima della Conferenza Ginevra II per decidere il coinvolgimento dell’Iran in questa conferenza.
E’ impossibile che il regno saudita raggiunga i suoi obiettivi in Siria, dopo il fallimento di un’alleanza guidata dagli Stati Uniti e composta da Qatar, Turchia, Francia e Gran Bretagna. Il principe Turki bin Faisal Al Saud, ex ambasciatore dell’Arabia Saudita negli Stati Uniti, ex direttore dei servizi di intelligence e membro influente della famiglia reale, ha riconosciuto il loro fallimento quando il 7 gennaio sul canale televisivo CNBC ha osservato che gli Stati Uniti non erano riusciti a risolvere il conflitto siriano.
Con l’Arabia Saudita, il conflitto siriano si espande a macchia d’olio
Il conflitto siriano in corso da tre anni è stato contenuto entro i suoi confini, ma l’attuale bellicismo dell’Arabia Saudita rischia di rendere permanente il conflitto, e, soprattutto, di diffondere il conflitto nella regione senza raggiungere peraltro l’obiettivo dichiarato dall’Arabia Saudita, ossia il cambio di regime a Damasco a qualsiasi prezzo. L’interminabile conflitto in Siria sta già guadagnando i paesi vicini a causa dell’agitazione e dell’incitamento settario dell’Arabia Saudita.
A est, i rappresentanti iracheni hanno chiesto al governo saudita, così come agli altri paesi del CCG di cessare la loro interferenza negli affari interni iracheni con le armi, ma anche di mettere fine al loro sostegno politico, finanziario e logistico ai ribelli, il cui terrorismo ha ucciso nel 2013 circa diecimila persone, perlopiù civili iracheni.
A ovest della Siria, il generale Michel Aoun, leader del Movimento patriottico libero (CPL), secondo blocco rappresentato nel parlamento libanese, ha dichiarato sul www.al-monitor.com il 23 dicembre che “il Libano è ormai paralizzato”. Dopo due settimane di congelamento del potere, un primo ministro designato è stato nominato lo scorso aprile, ma non ha ancora formato il suo governo. I suoi sforzi hanno portato a una situazione di stallo. Il paese da allora è stato amministrato da un governo ad interim. Nessuna svolta sembra imminente.
La ragione di questo è da ricercare in Arabia Saudita che godendo di un’influenza storica sui lealisti e alleati impedisce la formazione di una partnership di governo. Come prerequisito, esige che Hezbollah venga esclusa. Questa impasse ha diviso il paese in due campi: pro-siriano da un lato, e pro-saudita dall’altro. Riyadh vuole garantirsi che i lealisti impediscano una normalizzazione. Per questo, recentemente ha fomentato la divisione con un “regalo” di tre miliardi in cinque anni per l’esercito libanese in modo che possa acquisire armi fabbricate in Francia, nella speranza di creare un contrappeso a Hezbollah, creando le condizioni necessarie per far naufragare il Libano in una guerra civile.
Nel frattempo, nord ed est del paese, sono sfuggiti al controllo del governo centrale di Beirut e divenuti un bastione dove si organizza un campo di addestramento, un luogo di rifugio, una riserva di combattenti e un luogo di accoglienza degli jihadisti stranieri sostenuti dall’Arabia Saudita, alimentando il conflitto in Siria, fornendo armi e combattenti.
Dissuasi dai successi militari dell’esercito arabo siriano (composto dalle forze armate ufficiali), questi “jihadisti” hanno ripiegato sul Libano e rispondono intensificando gli attentati suicidi all’interno del paese, mietendo sempre più vittime tra i civili libanesi, in un caos delle sette.
A sud della Giordania, dove il regno ha raggiunto dopo tre anni un equilibrio tra i legami geopolitici con la Siria e la sua alleanza strategica con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, sono stati recentemente formulati degli avvertimenti contro la crescente pressione esercitata dall’Arabia Saudita sul paese per un suo cambiamento di rotta.
Ad esempio, www.ammonnews.net ha riferito il 30 dicembre che Ma’arouf al-Bakhit, ex Primo Ministro e membro della Camera alta, ha messo in guardia contro la pressione sulla Giordania ingenerata dal divario tra l’approccio statunitense alla risoluzione del conflitto in Siria e quello saudita. Inoltre, si presenta oggi una “sfida alla Giordania che deve considerare la prospettiva di una imposizione del punto di vista dell’Arabia Saudita”, aggiungendo che “la Siria non vede più la Giordania come un paese neutrale “, e accusa il regno giordano “di ospitare un centro operativo saudita-sionista, dove sono organizzate le operazioni militari in Siria”. Al-Bakhit ha aggiunto che se la Siria decide di agire sulla base di queste accuse, “è possibile che alcuni aspetti del conflitto si dispieghino nel regno”. Al-Bakhit avrebbe dovuto citare anche il Libano e l’Iraq.
Più lontano, in Russia, i recenti attacchi terroristici a Volgograd sono stati interpretati come parte integrante della stessa rete e organizzazioni terroristiche in Medio Oriente, anche da parte di poli emergenti. I media russi hanno citato l’Arabia Saudita come responsabile di questi attacchi.
Fiasco strategico dell’Arabia Saudita in Siria
Dalla cosiddetta “primavera araba”, comparsa per la prima volta in Tunisia tre anni fa, le monarchie del CCG guidate dall’Arabia Saudita sono riuscite a proteggersi dalla montante marea di proteste popolari attraverso operazioni preventive (Oman, Bahrain) o attraverso un intervento militare diretto (Bahrain). Inoltre, gli interventi indiretti militari, politici e finanziari, con l’obiettivo di recuperare le rivoluzioni emergenti in queste “repubbliche”, sempre più simili a negozi di porcellana, di stati apolidi o decadenti, hanno il fiato corto nella lotta disperata contro le organizzazioni terroristiche “islamiste”, armate e finanziate solamente da quelle petrol-monarchie e territori sotto l’autorità degli sceicchi e guidati da Arabia Saudita.
Questa strategia condotta dall’Arabia Saudita è più visibile in Siria, dove ha subito la sua prima sconfitta. Il consenso interno, regionale e internazionale su una soluzione politica e una campagna anti-terrorismo sta guadagnando terreno per fermare questa strategia. All’Arabia Saudita si offrono solo due opzioni: o fa marcia indietro o si troverà isolata. O cambia direzione o cambia leader.
La propaganda bellicista dell’Arabia Saudita in Siria, la fa apparire agli occhi del pubblico come origine della violenza e dell’instabilità nella regione, giustificando le accuse intentate nei suoi confronti da parte degli Stati Uniti e alimentate dagli incitamenti di Israele dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, secondo cui l’ideologia settaria saudita è un incubatore in cui si sviluppa la violenza e il terrore, nonostante il fatto che il regno saudita sia da lungo tempo in guerra contro i suoi stessi terroristi islamici.
Questa ideologia fanatica crea uno scontro settario in tutto il Medio Oriente tra due teocrazie: la teocrazia “sciita” iraniana e la teocrazia sunnita saudita, confondendo la linea di demarcazione della lotta regionale tra l’occupazione delle terre arabe in Palestina, in Siria e Libano da parte di Israele sotto la protezione degli Stati Uniti, e l’asse della resistenza autoproclamato da Iran e Siria. Mantenere l’identità laica in Siria sarà un primo passo verso il contenimento di questo distruttivo conflitto settario nella regione.
In questo contesto, va osservato che il regno saudita, sponsor dell'”iniziativa di pace araba”, si presenta come un pacificatore in contrasto con la potenza occupante israeliana, ma reclama una soluzione militare in Siria dove le alture del Golan sono occupate da Israele dal 1967.
L’ironia è che questo punto di incontro saudita-israeliano sembra portare all’unica via di fuga nella regione per il regno. L’approccio secondo il quale “il nemico del mio nemico è mio amico” crea una situazione di fatto compiuta nella forma di un matrimonio di convenienza tra Arabia Saudita e Israele di fronte alla Siria e all’Iran, mettendoli in una posizione moralmente superiore tra la stragrande maggioranza della posizione araba e musulmana.
* Nicola Nasser è un giornalista arabo di Bir Zeit, in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati da Israele
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