Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

La condizione palestinese

Postato il 4 Luglio 2014 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Condizione palestinese
di Tommaso Di Francesco

La pietà laica, quella verso ogni debole e vinto non può morire. L’uccisione dei tre ragazzi ebrei rapiti presso Hebron — Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naf­tali Fraen­kel — non solo è con­dan­na­bile, ma ci riem­pie di tri­stezza. Mai avremmo voluto com­men­tare que­sto risul­tato del rapi­mento. Si poteva per­fino ipo­tiz­zare un nuovo caso Sha­lit, un rapi­mento per uno scam­bio di pri­gio­nieri, quei «rapiti pale­sti­nesi» di cui nes­suno parla. Invece è acca­duto un delitto odioso che ci feri­sce, che non onora la causa pale­sti­nese che que­sto gior­nale ha sem­pre difeso e difende, anche come ragione della pace per due popoli e garan­zia di sicu­rezza per tutto il Medio Oriente. Tan­to­più che que­sto dram­ma­tico avve­ni­mento mette in discus­sione in modo defi­ni­tivo quell’ unità nazio­nale fati­co­sa­mente rag­giunta, Fatah-Hamas, così osteg­giata dal governo israeliano.

Dovreb­bero invece tacere tutti quelli che (media, governi, orga­ni­smi inter­na­zio­nali) o tac­ciono il con­flitto israelo-palestinese o hanno in gene­rale dimen­ti­cato, se non can­cel­lato, la stessa esi­stenza della que­stione pale­sti­nese.

Sono decine e decine i gio­vani pale­sti­nesi uccisi quest’anno, il cui sor­riso da ado­le­scenti vale la stessa appas­sio­nata inno­cenza del volto dei tre ragazzi ebrei assas­si­nati. Eppure, chi non ha mai nomi­nato quella sequenza di nomi arabo-plestinesi, oggi si ammanta di indi­gna­zione retro­da­tata, magari pro­pi­ziando la ven­detta di Israele, la puni­zione col­let­tiva e le rap­pre­sa­glie mili­tari duris­sime che si annun­ciano. E che non a caso pre­oc­cu­pano, almeno a parole, invece Barack Obama, che ammo­ni­sce il governo Neta­nyahu pronto alla ven­detta: «Attenti però, non rovi­niamo tutto».

Quello stesso Neta­nyahu che solo poche ore prima del rin­ve­ni­mento dei corpi, ha avviato indi­stur­bato e senza scan­dalo la costru­zione di un nuovo Muro, dalla Valle del Gior­dano al Golan occu­pato, una nuova bar­riera di cemento per i diritti negati del popolo palestinese.

Ecco il punto. Se die­tro il sipa­rio medio­rien­tale di morte e sopraf­fa­zione si vuole nascon­dere a tutti i costi la con­di­zione umana degli occu­pati pale­sti­nesi, ecco che lo sguardo non può che limi­tarsi alla sola scena dell’ultimo delitto, quella dei tre gio­vani israe­liani rapiti e uccisi.

Se solo si intra­vede invece l’orizzonte reale di rovine della Stri­scia di Gaza e della Cisgior­da­nia, la scena appare nella sua reale bar­ba­rie. Muri di sepa­ra­zione, ceck point mili­tari ai quali si con­suma il tempo di chi deve muo­versi per vivere, cioè di tutti, migliaia di dete­nuti poli­tici spesso in scio­pero della fame che nes­suno ha mai voluto rac­con­tare, milioni di pro­fu­ghi mal­trat­tati in ogni luogo di fuga, che non hanno più il diritto di tor­nare in patria e colo­nie — che ci fa ad Hebron un inse­dia­mento dove gli inte­gra­li­sti reli­giosi ebrei scri­vono sui muri «gas agli arabi» tanto da far dire allo scrit­tore Amos Oz che «sono nazi­sti»? Tante colo­nie tra­sfor­mate in avam­po­sti mili­tari dell’esercito israe­liano. Così tante che la loro ragna­tela di fatto impe­di­sce ormai la con­ti­nuità ter­ri­to­riale di quello che un tempo era riven­di­cato come Stato di Palestina.

Que­sta è la con­di­zione dei pale­sti­nesi. Vivono in milioni sotto una dura occu­pa­zione mili­tare, in casa loro ma da pro­fu­ghi. Dal 1967 due riso­lu­zioni delle Nazioni unite chie­dono ai governi israe­liani di riti­rarsi. Ma la richie­sta non solo non riceve rispo­sta, Israele ha allar­gato in que­sti decenni il suo con­trollo anche attra­verso migliaia di nuovi inse­dia­menti che ogni ese­cu­tivo ha esteso, mili­tar­mente, a piacimento.

È l’abbandono di que­sta deci­siva tema­tica a far sì che la bar­ba­rie chiami la bar­ba­rie. Bom­bar­da­menti, piombi fusi, rap­pre­sa­glie, tante e nuove stragi da Sabra e Cha­tila a Jenin, morti oscure di lea­der come Ara­fat. E sta­volta non ci sarà più la lotta alla luce del sole, come fu per la prima e la seconda intifada.

È troppo grande la scon­fitta e l’umiliazione dovuta ormai per l’impossibilità dello Stato Pale­sti­nese, da essere pro­fon­da­mente intro­iet­tata anche dalle gio­vani gene­ra­zioni. Che vivono sospese tra cor­ru­zione dila­gante favo­rita da ingenti finan­zia­menti occi­den­tali arri­vati per taci­tare la pro­te­sta e le legit­time aspi­ra­zioni e la vio­lenza degli occu­panti che lasce­ranno i Ter­ri­tori occu­pati nel limbo dei pre­sidi mili­tari, senza nem­meno annet­tere quelle tra­gi­che conquiste.

Forse la que­stione pale­sti­nese per come l’abbiamo cono­sciuta e soste­nuta non esi­ste più. E Israele può per­fino gri­dare vit­to­ria e col­pire Hamas depor­tan­done, come annun­cia, i mili­tanti nell’inferno di Gaza. Attenti però, Hamas vinse nel 2006 le ele­zioni pol­ti­che non solo nella Stri­scia ma anche in tutta la Cisgior­da­nia. Soprat­tutto, c’è un esem­pio che desta più di un timore. I mili­ziani jiha­di­sti dell’Isil che avan­zono tra ali di folla plau­dente dalla Siria in Iraq, sono spesso gio­va­nis­simi di nem­meno venti anni che erano bam­bini quando gli Stati uniti di George W. Bush sca­te­na­rono, con cri­mini rima­sti umpu­niti, la loro guerra. Erano ancora bam­bini quando gli ame­ri­cani bom­bar­da­vano al fosforo bianco Fal­luja e si diver­ti­vano nelle pri­gioni di Abu Ghraib.

La que­stione pale­sti­nese, abban­do­nata a se stessa, rischia di mate­ria­liz­zare solo odio a quel punto fina­liz­zato in una «pro­spet­tiva» altret­tanto inte­gra­li­sta. Sarebbe una scon­fitta per tutti.

(tratto da Il Manifesto 01/07/2014)

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