Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Il debito è una questione di classe

Postato il 31 Marzo 2014 | in Mondo, Scenari Politico-Sociali | da

Il debito è una questione di classe
di Niccolò Cuppini

Il tema del debito è entrato a far parte delle ana­lisi dei movi­menti per due prin­ci­pali motivi: il mani­fe­starsi della crisi come effetto di un’insolvenza nel ripia­nare il debito legato ai cosid­detti mutui sub­prime; per­ché in ampie parti del mondo la con­di­zione di inde­bi­ta­mento è sem­pre più para­digma comune, dagli USA sino ad arri­vare ai cosid­detti ex Paesi del Terzo Mondo, dove i mec­ca­ni­smi di finan­zia­riz­za­zione ed inde­bi­ta­mento agi­scono attra­verso le pra­ti­che del micro­cre­dito. Tra i testi signi­fi­ca­tivi usciti sull’argomento si pos­sono men­zio­nare Debi­to­cra­zia (di Mil­let e Tous­saint), Debito: i primi 5000 anni (Grae­ber) e La fab­brica dell’Uomo inde­bi­tato (Laz­za­rato). Si può col­lo­care in que­sto filone di dibat­tito un libro appena uscito negli Usa: Cre­di­to­cracy – And the Case for Debt Refu­sal. L’autore è Andrew Ross, pro­fes­sore alla New York Uni­ver­sity e atti­vi­sta impe­gnato in uno dei gruppi di lavoro for­ma­tisi durante Occupy Wall Street e tutt’ora attivo: Strike Debt. Cnsi­de­rato dalla stampa e da stu­diosi con­ser­va­tori come un «intel­let­tuale pub­blico» (l’equivalente sta­tu­ni­tense di intel­let­tuale mili­tante), Ross ha scritto molti saggi, che spa­zione dalla cul­tura popo­lare alla «pre­ca­raiz­za­zione» del lavoro intel­let­tuale al ruolo della Cina dell’economia glo­bale. Rispetto ai pre­ce­denti testi sul tema del debito, Ross foca­lizza l’analisi prin­ci­pal­mente su quella che defi­ni­sce come cre­di­tor class e su come essa, attra­verso le isti­tu­zioni finan­zia­rie, crea e man­tiene le forme di inde­bi­ta­mento. Ven­gono pro­po­ste alcune figure, defi­nite del «debito ille­git­timo»: il debito sovrano; il debito fami­gliare; quello stu­den­te­sco; il «furto» del lavoro e del red­dito; il debito cli­ma­tico. L’ultimo capi­tolo del testo è invece dedi­cato alle forme di resi­stenza al debito. Abbiamo fatto alcune domande all’autore.

Alcuni anni fa due regi­sti greci hanno pro­mosso un docu­men­ta­rio chia­mato «Deb­to­cracy», men­tre il tuo libro si chiama «Cre­di­to­cracy». La prima cosa che ho pen­sato è: sarà che uno pro­viene dall’Europa e l’altro dagli Usa?

Pro­ba­bil­mente non c’è una grossa dif­fe­renza tra que­sti due con­cetti. È stato Mario Monti a par­lare di cre­di­to­cra­zia (una cosa che non ci si aspet­te­rebbe da un eco­no­mi­sta e lea­der poli­tico che non ha mai nasco­sto la sua sua edi­sione all’ideologia del libero mer­cato), quando fu chia­mato a pro­te­stare con­tro il potere delle ban­che tede­sche, fran­cesi e sviz­zere. Di solito quando c’è un «cra­zia» in un titolo ci si rife­ri­sce ad una élite domi­nante, da qui il rife­ri­mento alla classe dei cre­di­tori come ter­mine che ho usato nel mio libro. La cre­di­to­cra­zia è quel tipo di società dove la classe dei cre­di­tori gode di un potere incon­trol­lato, e dove le risorse pri­ma­rie del loro red­dito ed influenza sono l’accumulazione di ric­chezze tra­mite ren­dite eco­no­mi­che e inge­gne­rie finan­zia­rie. Sostan­zial­mente con stru­menti di debito.

La cre­di­to­cra­zia emerge quando il costo del social good deve essere per­so­nal­mente e indi­vi­dual­mente indebitato/finanziarizzato, e l’obiettivo della classe cre­di­trice è crearli/strapparli su ogni pos­si­bile asset. Ogni flusso di red­dito nella società deve garan­tire un flusso sta­bile di debt ser­vice per la classe creditrice.

La nostra rea­zione istin­tiva al far­dello dell’essere inde­bi­tati è il pro­te­stare affin­ché il nostro debito venga estinto. Ma così si manca il punto: vivere in una cre­di­to­cra­zia implica come pre­sup­po­sto che i nostri debiti non devono e non ver­ranno sal­dati. I cre­di­tori dipen­dono dal tenerci inde­bi­tati per tutta la vita. Non vogliono che i debiti gli ven­gano inte­ra­mente resti­tuiti, per­ché se ciò avve­nisse non ci sarebbe pro­fitto per loro. Loro dipen­dono dal nostro fare ricorso a ser­vizi di indebitamento.

Nel libro pare echeg­giare un para­gone fra l’indebitamento e la schia­vitù. Se da un punto di vista poli­tico la cosa fun­ziona come appello, è però dif­fi­cile imma­gi­nare con­crete forme orga­niz­za­tive basate sull’indebitamento. Que­sta è indub­bia­mente una con­di­zione comune, che tut­ta­via dif­fi­cil­mente for­ni­sce forme di rico­no­sci­mento col­let­tivo in grado di pro­durre mobi­li­ta­zione. La domanda d’obbligo è: come ti imma­gini le pos­si­bili forme di orga­niz­za­zione con­tro la «cre­dit class».

Di mio non uso il ter­mine schia­vitù, anche per­ché in que­sto paese (gli Stati Uniti, n.d.r.) è un ter­mine molto sen­si­bile. Ma penso che l’enorme inde­bi­ta­mento si ponga in totale con­ti­nuità con una sto­ria che ha con­te­nuto la schia­vitù nel pas­sato. E que­sto è il motivo per cui molte per­sone uti­liz­zano parole come inden­ture, ser­vi­tude e debt bon­dage. La grossa que­stione è se que­sta sia reto­rica o se invece siamo real­mente ad un cro­ce­via per le demo­cra­zie costi­tu­zio­nali, dove le catene del debito sono all’orizzonte. Sulle forme di lotta, quello che abbiamo sco­perto negli ultimi anni, lavo­rando nel deb­tors move­ment, è che è una sfida molto dif­fe­rente rispetto all’organizzarsi sul sala­rio. Anche qui non è certo facile a causa della pre­ca­rietà delle con­di­zioni di lavoro, dove le per­sone non hanno un sin­golo datore di lavoro. Allo stesso modo con il debito, non c’è un sin­golo cre­di­tore. Anche le per­sone che hanno lo stesso tipo di debito, pos­sono non sapere chi sia il loro cre­di­tore. Non c’è un obiet­tivo visi­bile, una con­tro­parte. Quindi è molto dif­fi­cile far com­pren­dere alle per­sone il loro inte­resse comune. Ciò detto, que­sta è una sfida vera­mente neces­sa­ria. In Strike Debt abbiamo molto riflet­tuto su come pro­muo­vere alcuni cir­co­scritti scio­peri del debito che coin­vol­gano pic­coli gruppi di per­sone più che uno scio­pero di massa del debito. Par­tendo cioè da pic­coli gruppi di per­sone con lo stesso tipo di debito e lo stesso cre­di­tore affin­ché abbia per loro senso orga­niz­zarsi per arri­vare ad un default. Ci stiamo lavo­rando sopra, non è sem­plice. Da que­sto punto di vista, rin­vio alle ini­zia­tive docu­men­tate nel sito inter­net: http://rollingjubilee.org/.

Il debito stu­den­te­sco, con­trat­tosi a causa delle tasse sala­tis­sime per acce­dere all’università negli Usa, è un tema che tu hai trat­tato sia come pos­si­bile forma di orga­niz­za­zione, sia per il fatto che potrebbe essere una delle pros­sime bolle finan­zia­rie ad esplo­dere negli Usa…

È un grosso pro­blema per gli eco­no­mic mana­gers. Il loro lavoro è assi­cu­rare che la middle class abbia a dispo­si­zione un red­dito per poter com­prare case, alle­vare bam­bini, etc.. Que­sto è il loro lavoro: far andare avanti un’economia del con­sumo. A loro non inte­ressa avere una cit­ta­di­nanza edu­cata e cri­tica, cosa che infatti non c’è. Avere que­sto enorme debito anzi li avvan­tag­gia, per­ché que­sto con­di­ziona l’immaginazione poli­tica degli stu­denti. Tut­ta­via devono tro­vare il modo di bilan­ciare l’annichilimento dell’immaginazione poli­tica con un non ecces­sivo inde­bi­ta­mento come con­su­ma­tori. Ma è un pro­blema irri­sol­vi­bile. Biso­gna inol­tre con­si­de­rare che, a dif­fe­renza di altri paesi, oltre al debito stu­den­te­sco qui è anche estre­ma­mente signi­fi­ca­tivo il debito accu­mu­lato rispetto alla salute. Il Medi­cal debt è la mag­gior fonte di ban­ca­rotta di uomini, donne e fami­glie sta­tu­ni­tensi, e non è una dina­mica in via di muta­zione nem­meno in seguito alla Health Care reform del pre­si­dente Barack Obama. Comun­que nes­suno sta pro­po­nendo solu­zioni alla situa­zione del debito stu­den­te­sco. Noi sap­piamo quanto sarebbe dav­vero più eco­no­mico ren­dere free l’high edu­ca­tion in que­sto paese: secondo le mie stime coste­rebbe due miliardi di dol­lari l’anno, dav­vero pochi soldi. Ma l’ostacolo non è di natura eco­no­mica, bensì politica.

Nel libro, illu­stri il fatto che più di un secolo fa «JP Mor­gan» andò in soc­corso del bilan­cio degli Stati Uniti sal­van­doli dalla banca rotta. Negli ultimi anni è avve­nuto esat­ta­mente il con­tra­rio. Que­sto mostra come il potere finan­zia­rio si sia appro­priato della leva del potere poli­tico. Tu ritieni che que­sto assetto, venuto mani­fe­stan­dosi con la crisi, si sia con­so­li­dato, che in qual­che modo la crisi si sia con­clusa, o invece ci tro­viamo entro uno sce­na­rio ancora tutto in movi­mento antiausterità?

A mio avviso c’è un’apparenza di sta­bi­lità del sistema sociale e eco­no­mico, ma è una sta­bi­lità tea­trale, creata dallo Stato. Le ban­che sono indub­bia­mente più grandi, più forti, più red­di­ti­zie rispetto a prima. Quello che non ti uccide ti rende più forte, lo diceva Nie­tzsche no? E que­sto è cer­ta­mente il caso. Non c’è stata da parte dei «fun­zio­nari eletti» nes­suna capa­cità di opporsi a ciò, è uni­ver­sal­mente rico­no­sciuto che essi sono inca­paci di farlo. C’è un grosso poten­ziale che si veri­fi­chi una nuova fusione siste­mica, una grossa pos­si­bi­lità. E pro­ba­bil­mente le ban­che ver­ranno trat­tate nello stesso modo. Non è che siamo esat­ta­mente nella stessa situa­zione rispetto al 2008, però penso che i mobili siano stati ridi­spo­sti nella stanza, ma non in maniera sostan­ziale. E alla fine si è con­so­li­data e raf­for­zata la con­vin­zione nella comu­nità finan­zia­ria che loro ver­ranno trat­tati bene, suc­ceda quel che suc­ceda. Un’aspettativa che adesso è frutto di espe­rienza. Non è pos­si­bile para­go­nare ciò che suc­cede negli Stati Uniti con la zona Euro, per­ché gli Stati Uniti hanno una moneta a corso legale, una Banca Cen­trale che può bat­tere moneta. E in più c’è il potere del dol­laro a livello glo­bale. Quindi non c’è una vera pos­si­bi­lità di fare para­goni, ma il prin­ci­pio del fare dei ban­chieri la guida. È il mede­simo. Come la demo­cra­zia, o la fai­lure demo­cracy sia per­ce­pita, è un’altra sto­ria. Noi abbiamo anche il pro­blema di come è cali­brata la demo­cra­zia in que­sto paese, che è piut­to­sto diverso rispetto all’Europa, ad esem­pio rispetto a come fun­zio­nano i poteri fede­rali. Inol­tre, negli Stati Uniti non abbiamo una sini­stra nella demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. Ma anche per que­sto l’attivismo nella società civile è più forte. Le per­sone si orga­niz­zano di conseguenza.

Rispetto a ciò, una cosa che sto notando è che le forme di autor­ga­niz­za­zione, negli Stati Uniti, ruo­tano attorno all’idea di «com­mu­nity». Discu­tendo con alcuni atti­vi­sti emerge la cen­tra­lità di alcune frasi e atti­tu­dini poli­ti­che: «fac­cio parte di una comu­nità», «fac­cio ciò che fac­cio per la mia comu­nità, per il mio quar­tiere». In Ita­lia, o forse in Europa, è un’idea di comu­nità meno pre­sente di quanto accade nellla realtà sta­tu­ni­tense. È una dif­fe­renza di les­sico politico?

Voi euro­pei siete più filo­so­fici. Rispetto a que­sto, c’è pro­ba­bil­mente anche una que­stione di «sotto-scale» geo­gra­fi­che che si river­be­rano sulle forme demo­gra­fi­che, che pro­ba­bil­mente incide rispetto a que­sta que­stione in un paese come gli Usa. Così grande che c’è vera­mente poco in comune tra ciò che accade qui, a Mid­town Man­hat­tan per esem­pio, e ciò che accade in Ala­bama, in Mis­si­sipi, in Ari­zona… Siamo parte della stessa nazione, ma c’è dav­vero così poco in comune sotto la super­fi­cie. Con­se­guen­te­mente le per­sone costrui­scono un senso del loro far poli­tica mag­gior­mente legato al livello locale, e sen­tono che otte­nere qual­cosa per la loro comu­nità, soste­nere la comunità,è ciò che vera­mente incide. Par­lare di una poli­tica nazio­nale è privo di senso pra­tico, anche visto che la sini­stra soli­ta­mente ha così poche risorse. Infine noi non abbiamo la tra­di­zione di un movi­mento nazionale.

* La ver­sione inte­grale dell’intervista è pub­bli­cata su www.commonware.org

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