Un torto subito da un lavoratore è un torto fatto a tutti (IWW)

Questione morale o di classe?

Postato il 9 Giugno 2014 | in Lavoro Privato, Lavoro Pubblico, Sindacato | da

In queste settimane stiamo assistendo a retate eclatanti e ripetute ai danni di politici, amministratori, banchieri, cooperatori e colletti bianchi: inchieste e reati di ogni genere, che coinvolgono opere pubbliche e gestioni private, senza soluzione di continuità.

I lavoratori manifestano repulsione, rabbia ma anche assuefazione: si invoca più repressione come uno stanco esorcismo che, si sa, è destinato a non funzionare.

Oggi è arrivato il momento di riprendere un nostro punto di vista – di classe – sulla natura di queste vicende, per sottrarle ad ogni scorciatoia giudiziaria, politicista o, peggio, moralista. Perché a oggi i termini della discussione pubblica sono molto poveri e fuorvianti: i “nuovi” politici ci tengono a marcare la distanza dai vecchi rottamati; i manettari insistono sull’indulgenza del nostro sistema penale e invocano inasprimenti delle pene; qualcun altro, invece, dà essenzialmente la colpa alle “grandi opere”. Quest’ultima è la posizione più diffusa nella sinistra sociale e merita qualche riflessione.

Premesso che è vero che quasi tutte le grandi opere italiane (almeno dagli anni 80 ad oggi) hanno prodotto risvolti criminali o criminogeni – e questo è un dato acclarato; è anche vero che le “grandi opere” in questo ordine di discorso assumono un carattere decisamente feticistico: le responsabilità si spostano dall’area dai rapporti sociali, alle “cose” (le grandi opere appunto) fonti di tentazioni magicamente irresistibili e intrinsecamente maligne. Bisogna invece restare sul terreno dei rapporti sociali, cioè dei rapporti di potere tra classi, settori, gruppi di interessi. E’ qui che si colloca il nodo italiano del malaffare di di sistema.

Il vero problema che abbiamo oggi è la vocazione criminale della nostra borghesia.

Sulle ragioni di tale vocazione, si possono incrociare le riflessioni dello storico, del sociologo e finanche dell’antropologo: la ricca analisi gramsciana, la tardiva unificazione del paese, le mancate rotture dentro l’apparato statale nel 45, la mala-modernizzazione dell’ultimo trentennio malato e chi più ne ha più ne metta. Molte possono essere le ragioni che hanno conferito questo carattere debole e malandrino alla nostra borghesia. Ma la realtà attuale è questa: la produzione di comportamenti sociali criminali è la regola delle nostre elite, non l’eccezione. Concretamente significa che le classi dirigenti italiane (tecnocrazia, amministrazioni, banche, finanza, industria, ceto politico) sono abituati a mediare i loro affari e la spartizione dei profitti, non sul terreno di cui cianciano continuamente – la meritocrazia, il libero mercato, etc – ma su quello della mediazione criminale. La meritocrazia, i sacrifici, la società aperta, sono roba buona per le omelie che ci propinano da anni a rete unificate: nella pratica, le elite italiane sono impegnate a spolpare furiosamente l’osso della ricchezza nazionale come se fossimo agli ultimi giorni di Pompei – senza neanche essere in grado, in cambio, di fornire il ruolo di intermediazione e coesione sociale che pure i vecchi partiti avevano saputo esercitare. Chiedere leggi più severe, autority più occhiute o finanza più etica, vuole dire credere nell’autoriforma della nostra borghesia: e questo proprio nel punto più basso toccato dalla sua parabola storica.

Secondo me è possibile ( e necessario) andare dalle lavoratrici e dai lavoratori, anche dentro le nostre assemblee sindacali (laddove ancora se ne fanno..), e parlare finalmente chiaro: le classi dirigenti italiane sono alla bancarotta morale e stanno trascinandosi dietro il paese; non sono in grado di produrre egemonia, direzione politica, orientamento allo sviluppo ed equilibri più avanzati. Vivono di rendita, oligopolio criminale e possono solo svendere quel che resta di appetibile nel paese. E questa tendenza, dentro la crisi epocale in atto, non può che accentuarsi. La corruzione generalizzata è la ciambella di salvataggio a cui la nostra fragilissima borghesia si aggrappa, per restare a galla nella competizione globale che la vede perdente. E questo mentre cercano forsennatamente, da anni, di instillarci sensi di colpa collettivi per “essere vissuti al di sopra della delle nostre possibilità..”, per aver prodotto un debito pubblico abnorme e aver resistito irresponsabilmente alle loro “riforme”.

E’ necessario che la stragrande maggioranza della popolazione, la società del lavoro e del non lavoro, l’esercito di chi produce ricchezza e di chi ne è escluso, la massa dei “virtuosi” per necessità – quelli che hanno le mani pulite perché troppo impegnati a procurarsi con quelle mani la sopravvivenza quotidiana – ,imponga un rovesciamento dei rapporti di forza. Non ci sono soluzioni salvifiche dietro l’angolo. Non c’è autorità super-partes o forze politiche a cui delegare improbabili svolte morali: se elimini le grandi opere ruberanno sulle piccole; se cambi ceto politico, i nuovi arrivati si adegueranno; se aumenti controlli e pene si inventeranno sistemi sempre nuovi per aggirarli. Le classi dirigenti italiane vanno messe in condizione di non nuocere attraverso processi di espropriazione del loro potere reale. Non abbiamo alternative davanti a noi e dobbiamo dirlo con franchezza alla gente. Il blocco sociale del lavoro, contro il miserabile blocco borghese del malaffare.

GIOVANNI IOZZOLI
Il sindacato è un’altra cosa – Modena

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