December 5, 2024
Il rapporto. L’organizzazione dei paesi più industrializzati ha registrato un aumento delle differenze tra ricchi e poveri: un fenomeno che con la crisi si è accentuato, e che non si arresta. Dal 2007 al 2011 il 40% della fascia più bassa ha perso il 40% del reddito, mentre i più facoltosi hanno guadagnato il 51%. Le cause: dal dilagare del lavoro precario alla detassazione dei milionari.
Siamo arrivati a «un punto critico, le ineguaglianze non sono mai state così forti nei paesi Ocse», afferma Angel Gurria, segretario generale dell’organizzazione che riunisce i 34 paesi più industrializzati. «Stiamo cambiando di dimensione», spiega un economista. Nel terzo rapporto Ocse sulle ineguaglianze, presentato ieri al Château de la Muette, la situazione appare peggiorata rispetto ai precedenti studi (2008 e 2011): dall’inizio della crisi, il 40% della popolazione più povera ha registrato un calo di reddito; tra il 2007 e il 2011 il reddito reale (corretto dagli effetti inflazionistici) della fascia più debole è diminuito di circa il 40%, mentre il 10% più ricco, dal 1995 ha accumulato un aumento del 51%.
All’origine dell’aumento delle ineguaglianze c’è l’esplosione del part time imposto, dei contratti a termine, del precariato, dei tagli al salario per spingere le persone al lavoro autonomo, accollandosi tutti i rischi, forme di occupazione che hanno rappresentato più della metà dei nuovi posti creati nei paesi Ocse dal 1995 al 2013. In più, sottolinea l’Ocse, nei principali paesi industrializzati più della metà del lavoro precario riguarda i giovani sotto i trent’anni. Le donne restano indietro, con salari in media del 15% più bassi degli uomini e il 16% in meno di possibilità di occupare un impiego.
Oggi, nei 34 paesi più ricchi del mondo il 10% della popolazione più agiata ha un reddito 9,6 volte superiore a quello del 10% più povero. Nel 1980 questo scarto era di 7,1 volte superiore, nel 2000 era già salito a 9,1, cioè siamo di fronte a una progressione costante delle diseguaglianze. Questi scarti aumentano in modo esponenziale se si calcolano i patrimoni delle famiglie. La crisi ha aggravato la situazione e accelerato questo fenomeno.
L’Ocse sottolinea le conseguenze negative della crescente ineguaglianza: nei 19 paesi esaminati, avrebbe amputato la crescita di 4,7 punti tra il 1990 e il 2010. E per il futuro il perpetuarsi di questa tendenza è destinato a distruggere il capitale umano e a decurtare le possibilità di crescita dell’economia. C’è stato l’aumento del precariato che è andato di pari passo con la diminuzione dell’efficacia dei meccanismi di redistribuzione, le tasse sono diminuite per i ricchi e ad esse sfuggono largamente le multinazionali grazie al ben oliato meccanismo dell’«ottimizzazione fiscale», oggi sotto accusa anche nella Ue. I tagli alle imposte per i più ricchi, in un mondo dove ormai si è diffusa l’intolleranza fiscale (prima dell’era Reagan, negli Usa il decile più alto era tassato a più dell’80%, percentuale che oggi sarebbe considerata insopportabile), hanno contribuito all’esplosione delle ineguaglianze.
Nel mondo industrializzato ci sono paesi più ineguali di altri. Cile, Turchia, Messico, ma anche Usa e Israele sono tra i più ineguali, mentre Danimarca, Norvegia, Slovenia e Slovacchia sono quelli dove le differenze sono minori, come mette in evidenza la tabella del rapporto Ocse che presenta il coefficiente Gini. La Francia è in una posizione critica, ormai al 21esimo posto per ineguaglianza su 34 paesi: la situazione si sta aggravando con la crisi, il 10% delle persone più ricche ha registrato una crescita del reddito del 2% l’anno (cioè più della media Ocse), mentre il 10% più povero ha subito un calo dell’1% (un po’ meno della media), grazie agli ammortizzatori sociali, non ancora del tutto distrutti. Ma, dal punto di vista della concentrazione patrimoniale, il 10% più ricco controlla più della metà del patrimonio delle famiglie. La presidenza del socialista Hollande non sembra aver avuto alcuna influenza su questo trend di diseguaglianza.
Quest’ultimo rapporto Ocse suggerisce agli stati membri di intervenire, per reintrodurre più efficaci politiche redistributive. Siamo di fronte a un caso di schizofrenia dell’organizzazione, che in numerosi altri rapporti non fa che suggerire da anni la liberalizzazione del mercato del lavoro e il taglio ai diritti come soluzione per uscire dalla crisi e combattere la disoccupazione. È questa la ricetta che viene presentata come Tina (there is no alternative) a tutti gli stati della Ue, dall’Italia fino alla Grecia.
La progressiva distruzione della classe media, che in gran parte si impoverisce, ha già conseguenze politiche, con l’irruzione della destra populista, la crescita della paura e l’illusione di una soluzione nel rifiuto dell’altro.
La classe media, che si assottiglia e perde terreno, si sente vittima della mondializzazione e questo comincia ad avere effetti anche geopolitici. In Europa, cresce l’euroscetticismo e la chiusura nazionalista.
Perfino negli Usa si diffonde lo scetticismo verso le proposte di Obama su accordi internazionali di liberalizzazione commerciale, come il Ttip con la Ue o il Tpp con il Giappone e l’area del Pacifico.
Pubblicato in L’Angolo Finanziario
Secondo la Oxfam, agenzia internazionale che si batte contro la fame nel mondo, il divario tra ricchi e poveri si sta allargando al punto che entro il 2016 un minuscolo gruppo di miliardari avrà più ricchezze della stragrande maggioranza restante del mondo.
Nel 2009 la percentuale di ricchezza concentrata nelle mani del “top 1%” era del 44% nel 2009, mentre nel 2014 é aumentata al 48% del totale e supererà quota 50% nel 2016. Le 80 persone più ricche del pianeta hanno risorse equivalenti ai 3,5 miliardi di poveri che costituiscono il 50% della popolazione globale. Mentre l’élite possiede in media 2,7 milioni di dollari a testa, il 99% si deve accontentare di 3.851 dollari.
Dai dati rilevati risulta che un quinto dei miliardari del mondo operano nel settore finanziario e delle assicurazioni; lo scorso anno é stato particolarmente positivo per i leader del settore farmaceutico e sanità, la cui ricchezza é aumentata del 47 per cento.
Secondo le Organizzazioni Internazionali la disuguaglianza va combattuta non solo per ragioni etiche, ideologiche o sociali, ma anche per motivi strettamente economici. L’eccessiva concentrazione della ricchezza in poche mani infatti soffoca la crescita economica e quindi danneggia le prospettive di ripresa per tutti. Per combattere la disuguaglianza si propone un piano di azione in vari punti che prevedono un giro di vite contro l’evasione fiscale delle imprese, l’imposizione di un salario minimo per tutti i lavoratori, maggiori investimenti in servizi pubblici gratuiti e una riforma fiscale che tassi i capitali e la ricchezza invece del lavoro e dei consumi.
Viene rilevato che è giunta l’ora che i nostri leader sfidino i potenti interessi che ostacolano la transizione a un mondo più giusto ma anche globalmente più ricco. L’aumento della disuguaglianza, infatti, colpisce i poveri due volte: dando loro una fetta sempre più piccola della torta economica e riducendo la crescita e quindi le dimensioni della torta.
Passando ora dai dati globali a quelli del nostro Paese si evidenzia che a partire dal 2008, mentre crollava Lehman Brothers, l’America eleggeva il primo presidente nero, l’ultimo governo di Silvio Berlusconi scivolava via, mentre la Cina cresceva del 60% e Apple diventava la società di maggior valore al mondo, in Italia si consumava un evento storico. In sordina, però, quando tutti erano troppo presi a seguire gli altri eventi, quelli che hanno segnato le prime pagine dei giornali dal 2008 in poi, per accorgersene. Eppure non era invisibile, perché è stato uno spettacolare evento caratterizzato da una parte da una sempre più manifesta sofferenza sociale dei molti e dall’altra di un opulenza dei pochi.
Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini i VIP più noti dell nostra economia anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno.
Cinque anni dopo, ovvero nel 2013, sorpasso e doppiaggio sono già avvenuti: le dieci famiglie con i maggiori patrimoni ora sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Quelle grandi famiglie a questo punto detengono nel complesso 98 miliardi di euro. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l’economia italiana balzava all’indietro di circa il 12%. I 18 milioni di italiani al fondo delle classifiche della ricchezza sono scesi invece a 96 miliardi: una scivolata in termini reali (cioè tenuto conto dell’erosione del potere d’acquisto dovuta all’inflazione) di poco superiore al 20%. Quanto poi a quelli che in base ai patrimoni sono gli ultimi dodici milioni di abitanti, il 20% più povero della popolazione del Paese, lo squilibrio è ancora più marcato: nel 2013 le 10 famiglie più ricche d’Italia hanno risorse patrimoniali sei volte superiori alle loro.
Sono questi i risultati svolti sui patrimoni degli italiani durante gli anni della crisi. L’analisi si basa sui dati pubblicati dalla Banca d’Italia relativi alla ricchezza netta nel Paese e la sua suddivisione fra strati sociali. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, una lista che negli anni è cambiata, le informazioni sono tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Inevitabilmente né l’una né l’altra serie di dati è perfetta, molte informazioni sui patrimoni non sono pubbliche e restano soggette a stime più o meno accurate. Ma le tendenze emergono con prepotenza e raccontano due storie di segno diverso. La prima non è a lieto fine: dal 2008 l’Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell’accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni. La seconda storia invece fa intravedere un po’ di luce in fondo al tunnel, perché la lista dei super-ricchi è cambiata in modo tale da alimentare qualche speranza sulle capacità del Paese di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite più o meno parassitarie.
Il punto di partenza di questi anni non è incoraggiante. Calcolata in euro del 2013, la ricchezza netta totale degli italiani crolla di 814 miliardi negli ultimi cinque anni (quelli per i quali sono disponibili i dati, fino appunto al 2013). Sparisce nella voragine della recessione quasi un decimo di patrimonio netto delle persone che vivono in questo Paese. Circa due terzi di questa erosione si spiega con il calo del valore delle case, mentre il resto è dovuto a perdite finanziarie o al ricorso di certe famiglie ai risparmi per sostenere le spese quotidiane. Per la parte della ricchezza in mano ai ceti meno ricchi, si assume che la loro quota nel 2013 sul totale del patrimonio degli italiani sia rimasta invariata rispetto al 2010: è ad allora che risalgono gli ultimi dati disponibili. In realtà questa è una stima ottimistica, perché la tendenza alla diminuzione della quota di patrimonio dei più poveri è evidente dagli anni precedenti. Nel 2000 per esempio il 40% più povero della popolazione residente in Italia, 24 milioni di persone, aveva patrimoni pari al 4,8% della ricchezza netta totale del Paese. Dieci anni dopo quella quota era già scesa al 4,2%.
Anche così, il calo dei patrimoni della “seconda” metà d’Italia, l’Italia meno ricca, è superiore alla media del Paese. Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l’esattezza 935 miliardi. Dunque la “seconda” metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell’11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell’8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante. Tutt’altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo.
Secondo la graduatoria di Forbes scivolano in basso i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Sale in fretta invece il patrimonio di produttori industriali dediti all’export. Succede nell’alimentare, nella moda e lusso, nella farmaceutica e nell’industria ad alto contenuto tecnologico. La diversa qualità del “capitale vincente” è forse un passo avanti di un’Italia sempre più piena di squilibri. È un Paese che si sta liberando di alcuni vizi del suo capitalismo. Se risolverà il problema della povertà, e uscirà dalla crisi, forse l’Italia potrà ritrovarsi con una marcia in più.
Mario De Luca
27 marzo 2015
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