October 8, 2024
Con il ricatto della Bossi Fini sempre pendente come una spada di Damocle sul proprio futuro, gli immigrati in Italia hanno affrontato gli anni della grande crisi caricandosi sulle spalle più di un peso, e riuscendo comunque a produrre sempre più ricchezza.
Pagando però prezzi molto salati. A partire dal salario, più basso di circa un quarto rispetto allo stipendio dei lavoratori italiani (-24,2%), con un differenziale che arriva al -27,6% per le donne.
E con, in parallelo, la conferma di una vera e propria segregazione occupazionale che, al di là del titolo di studio, li porta invariabilmente a lavorare nei settori «a basso valore aggiunto»: dai servizi alla persona all’agricoltura, passando per il comparto delle costruzioni e gli impieghi in alberghi e ristoranti. Settori dove la concorrenza con l’offerta di lavoro degli autoctoni – al di là dei deliri leghisti – risulta marginale. E dove comunque gli immigrati sono stati i primi ad essere sacrificati nel momento in cui la crisi azzannava.
È nitida la fotografia che emerge dallo studio «Le conseguenze della crisi sul lavoro degli immigrati in Italia», realizzato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil nell’ambito delle attività dell’Osservatorio sulle migrazioni, che ha analizzato le condizioni dei lavoratori stranieri occupati in Italia nel quinquennio 2011-2015.
Leggi tutto l’articolo di Riccardo Chiari (tratto da Il Manifesto) al seguente indirizzo:
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