October 7, 2024
Il debito pubblico come forme di valorizzazione del capitale
Siamo stati facili profeti sia nel prevedere che si sarebbe arrivati alla svalutazione, sia che, proprio in seguito alla politica “di tutti i redditi” di cui all’accordo del 31 luglio, si sarebbe inevitabilmente arrivati anche alla messa in discussione definitiva del sistema sanitario e pensionistico. Il punto non è perché siamo stati facili profeti noi, ma perché non lo sono stati Trentin o tanti altri dirigenti.
La domanda brutale che ci troviamo a fare, dopo i “giochi delle parti” imbastiti da Trentin al direttivo nazionale della Cgil e dopo la sua dichiarazione fallimentare rispetto ad un accordo ormai firmato – secondo le sue parole – “solo per difendere la parità del cambio ed evitare la svalutazione”, è se fanno ciò con consapevolezza o incoscienza.
Non ci volevano infatti particolari doti di preveggenza nel comprendere che il perseguimento rigido e accelerato della integrazione finanziaria, attraverso manovre monetarie, in una Europa basata “sulla competitività e sul mercato” come sta scritto negli accordi di Maastricht, produceva una sopravvalutazione della lira rispetto agli squilibri di natura strutturale della nostra economia. Ciò rendeva indispensabile il proseguimento di una politica volta ad aumentare, continuamente, le entrate del lavoro dipendente, per soddisfare le esigenze e compensare gli sprechi delle rendite finanziarie, che hanno prodotto 180 mila miliardi all’anno di interessi del debito pubblico. Ragione per cui non solo il blocco dei salari e della scala mobile e della contrattazione articolata, ma i consumi collettivi e i sistemi di difesa del reddito, come sanità e previdenza, avrebbero dovuto essere incisi ed eliminati.
La crisi fiscale italiana non deriva dell’eccesso di spese sociali
La “crisi fiscale” dello stato non è data dall’eccesso di spese sociali e previdenziali: la sanità-italiana spende al di sotto del 6% del prodotto interno lordo (mentre tutti gli altri paesi si mantengono al di sopra); il Fondo previdenziale dei lavoratori dipendenti è in attivo di 12 mila miliardi, ed è in attivo persino quello degli artigiani (1516 miliardi) e dei commercianti (1256 miliardi). Non è quindi per un’esigenza di risanamento di questi settori che si promuovono tagli drastici e aumento dei prelievi dalle tasche di lavoratori e cittadini.
Quella che impropriamente si chiama “crisi fiscale dello stato” non è altro che la difficoltà che lo stato oggi incontra per “fare la spesa” al capitalismo, industriale e finanziario. Il quale capitale industriale e finanziario, in conseguenza dell’insufficienza di accumulazione determinata dai suoi sprechi speculativi e improduttivi, deve per forza esercitare una pressione formidabile su tutta la società, attraverso lo stato, per ottenere in “gestione diretta” quella massa gigantesca di risorse che sono concentrate in strumenti economici di diritto pubblico, come i fondi pensione e i fondi sanitari, che ostacolano un loro libero uso capitalistico. Libero uso che spesso si traduce in giochi speculativi sulle monete, come accade con le tempeste monetarie attuali, soprattutto dopo l’imprevidente decisione della CEE di liberalizzare, nel 1990, la circolazione dei capitali.
Laddove non si arriva a gestire direttamente questa enorme massa di mezzi finanziari, accumulata con i contributi dei lavoratori dipendenti, si prende in prestito dallo stato e si va in disavanzo. Non a caso tutti i paesi capitalistici importanti sono in grande disavanzo, anche più dell’ Italia.
Se si accetta questa pura e semplice logica di mercato, come prevede Maastricht e come prevede l’orientamento della politica economica dell’attuale governo, volendo ridurre il disavanzo pubblico ma continuando a garantire possibilità di “fare la spesa” al capitalismo e alle sue esigenze speculative e improduttive attuali, non c’è altro modo che attingere ai fondi delle entità economiche dei sistemi sociali previdenziali e sanitari. E non c’è da stupirsi che coerentemente con ciò, questa pressione sia accompagnata dalla detassazione crescente dei redditi di capitale. Chiedere che vengano tassati i redditi da capitale e lamentarsi perché questo non si fa, nel mentre contemporaneamente si accettano i presupposti dell’attuale politica economica di governo e si accetta di non contrastare ma di codeterminare insieme al capitale e all’impresa, la partecipazione dei lavoratori ad una società basata “sulla competitività e sul mercato” dei capitali, è come lamentarsi del fatto che dopo aver concordato di premere un interruttore si accenda la luce. Sarebbe infatti una contraddizione che mentre da un lato si accetta di valorizzare il capitale, finanziandolo anche con il disavanzo poi, dopo averlo valorizzato, tassarlo.
L’errore della sinistra: l’abbandono del controllo politico dell’economia
Qui siamo ad un punto cruciale della lotta politica attuale, rispetto a cui sindacati e forze politiche della “sinistra” “ex” e “post” tutto, sono totalmente impreparate e completamente subalterne, a causa del rovesciamento strategico degli scorsi anni con cui si è scelto di abbandonare ogni strategia di controllo sociale e politico dell’economia, anzi di cassare l’economia dai propri orizzonti, come nella più bieca forma della tradizione socialdemocratica, per occuparsi, dicono, del “lavoro”. Come se fosse possibile difendere e valorizzare il lavoro, l’occupazione e i soggetti “deboli” della società – cui si propongono invereconde “carte dei diritti” – senza occuparsi della qualità e delle finalità degli investimenti, senza mutare le finalità delle scelte di politica economica perseguite da imprese, finanza e governi.
C’è una deformazione profonda nell’uso e nella destinazione delle risorse che non può non portare ad una messa in discussione delle condizioni di vita e di lavoro e dei sistemi di difesa e consumo collettivi delle grandi masse popolari e dei lavoratori. Nessuna rivendicazione formale di diritti, nuovi o acquisiti, può essere sostanzialmente realizzata, se non si affronta il problema del senso sociale degli investimenti e dell’uso sociale della spesa. Quindi il problema è non solo di lotte difensive, pur necessarie e inevitabili, del settore previdenziale e sanitario che però, se restano solo difensive, sono inevitabilmente perdenti. Ma di lotte che non siano rinunciatarie e povere nella capacità di affrontare soprattutto le questioni dei meccanismi centrali di uso e gestione delle risorse. Lotte da affrontare armando criticamente la presenza e il ruolo politico delle organizzazioni dei lavoratori e dei partiti e della loro base sociale, rispetto ai meccanismi attuali dell’accumulazione, quindi rispetto l’economia.
Non si tratta e non basta dire “ci vuole più equità” nei provvedimenti. Certo è un problema anche di equità. Ma non solo. Bisogna dire anche per che cosa, per quale scopo e per quale politica. Perché se anche il prelievo fosse più equo, ma fosse ancora una volta sostanzialmente finalizzato ad alimentare le rendite finanziarie, anziché gli interventi di rilancio dell’apparato produttivo e dell’occupazione industriale e agricola, non si risolverebbe nessun problema. Si riprodurrebbero in poco tempo tutte le condizioni di una nuova crisi solo tamponata o rimandata per un poco, e si ritornerebbe poi ancora a colpire successivamente gli stessi. Come puntualmente accade ormai da molti anni.
Per un diverso uso delle risorse
Perché se per realizzare l’attuale distorto meccanismo è necessario attingere alle risorse che vengono collettivamente realizzate da grandi masse di popolazione; se è necessario agire su queste risorse, non più solo in modo diretto attraverso i margini di profitto delle imprese, ma anche in maniera indiretta attraverso il prelievo fiscale, l’uso della leva finanziaria e di quella monetaria; se per tutto questo è necessario attaccare quelle che furono per alcuni delle “concessioni” e per altri delle “conquiste” nel campo della produzione e della cosiddetta “sicurezza sociale”, vuol dire che i momenti di conflitto che si svilupperanno, si moltiplicheranno e diventeranno sempre più vasti.
Occorre quindi ristabilire una capacità di lotta antagonistica al posto dell’attuale “cogestione” e “concertazione”, perché lo scontro di interessi è tale che non basta certo una partecipazione agli attuali assetti di potere per ottenere che mercato e capitale rispettino l’etica e le regole della democrazia. Anzi, per garantirsi definitivamente la possibilità di agire e attingere liberamente alle risorse delle grandi masse popolari e lavoratrici e per poter gestire una stretta antisociale e antipopolare come quella che esige l’attuale indirizzo di politica economica, non potranno fare a meno di rivendicare “poteri speciali” come ha già fatto Amato e come si farà con le controriforme istituzionali in progetto.
La questione dello Stato è per tutto questo centrale. Ma occorre arrivare a mettere in discussione, con la lotta, anche i meccanismi del sistema e gli orientamenti di fondo delle scelte economiche e di investimento. Più in particolare, per fare un solo esempio, non si potranno difendere i sistemi sanitari a completa tutela pubblica e la continuità pensioni-salari, se non attacchiamo alla radice l’uso delle risorse, se non spostiamo la centralità che, ad esempio, ha l’uso delle risorse e degli investimenti nel campo militare. L’ultimo rapporto del FMI dice “tagliare del 20% la spesa militare”, ma in Italia e non solo questa aumenta.
E non è un caso perché essa è centrale nella garanzia delle forme attuali di accumulazione delle imprese e del capitale finanziario. E’ solo un esempio, ma forte, perché muterebbe l’attuale forma di concentrazione delle risorse in molti campi e non da ultimo permetterebbe un collegamento con la lotta per un rilancio della democrazia.
Angelo Ruggeri
pubblicato con il titolo “Il gioco delle parti” sul settimanale Il Lavoratore/oltre del 25 settembre 1992
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