November 2, 2024
Riceviamo e pubblichiamo
In merito alla terribile e attualissima questione della violenza di genere, ci preme intervenire nel dibattito proponendo una riflessione che parta da presupposti materialisti, storici e comunisti.
Il nostro manifestare e mobilitarci contro la violenza sulle donne parte da un punto di vista classista, poiché riteniamo che il genere e la classe non siano categorie necessariamente escludenti. E’ ben chiaro che la violenza di genere si esprime in modo generalizzato e univoco dagli uomini verso le donne, ma l’origine di questa vessazione non si risolve ricercando una natura psicologica (e meno che mai “patologica”) di un presunto comportamento maschile astratto e non storicizzato. Tale violenza permea tanto i quasi impercettibili aspetti della nostra esistenza quotidiana, manifestandosi come disparità nei rapporti familiari o discriminazione nel mondo del lavoro e nella sfera della salute (il banalissimo esempio della libera costruzione della propria sessualità, dell’accesso agli anticoncezionali o all’aborto sono solo la punta dell’iceberg), fino ad arrivare a espressioni più estreme e crude come lo stupro, la violenza domestica e l’omicidio.
La storia dei rapporti tra i generi si intreccia in modo indissolubile con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e dunque con la costruzione delle sovrastrutture sociali che la nostra storia come umanità ha conosciuto. Per questo la violenza di genere è una costante attraverso diverse epoche, perché la storia umana è la storia di società divise in classi in cui una parte della società ne opprime un’altra e non in virtù di categorie non storiche che si pretenderebbero insite in astratte “nature” maschili o femminili. Il patriarcato è un abito che molteplici forme di organizzazione sociale hanno indossato con comodità e piacere (ma non per questo è universale), compresa la società attuale del capitalismo, proprio perché nato in legame con la divisione in classi della nostra società. Una riflessione sulla violenza di genere dunque non può prescindere da una analisi storica e critica della famiglia e di tutte le strutture sociali in generale (Chiesa e altre istituzioni religiose, Stato, ma anche la scuola, partiti ecc.).
Nella nostra prospettiva il principio della violenza, tanto di genere quanto di classe, risiede nella proprietà privata ed è principalmente da essa che scaturisce. In questo senso, se la donna è proprietà dell’uomo, se è dunque un suo “oggetto”, egli cercherà di disporne come vuole, con tutte le conseguenze che ci sono ben evidenti oggi. La violenza di genere non si risolve dunque “mettendoci la faccia” o chiedendo agli uomini di essere genericamente “migliori” ma includendo l’analisi femminista ad una prospettiva comunista di trasformazione strutturale e radicale della società. La società capitalista è una società di violenza istituzionalizzata in cui una minoranza esigua della popolazione espropria la maggioranza giorno dopo giorno costruendo su questo abuso la propria ideologia e morale. Questo tipo di società non è in grado di riformarsi in nessuno dei suoi aspetti, perché è costruita sulle fondamenta essenziali del profitto e della proprietà privata. E’ di conseguenza del tutto inconciliabile con la liberazione dall’oppressione di genere, perché le sue radici affondano in quella divisione sociale del lavoro che ha origine anche nella nascita storica della famiglia e nella divisione di genere dei compiti sociali.
Solo la conciliazione di una prospettiva femminista di liberazione della donna e delle minoranze di genere oppresse con la prospettiva generale della sollevazione degli sfruttati, degli espropriati, del mondo del lavoro contro la classe padronale può creare i presupposti reali della costruzione di una società senza divisione di classi, senza oppressioni, diseguaglianze e discriminazioni, e nell’alveo di questo processo storico, costruire nuovi rapporti sociali, che sono innanzitutto nuovi rapporti umani.
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