November 2, 2024
Bandiere nere in segno di lutto. Così, in Ecuador, l’opposizione al governo di Rafael Correa ha deciso di protestare contro la Legge organica per la ridistribuzione della ricchezza, altrimenti detta Ley de Herencia. Una legge che prevede di aumentare le tasse di successione dal 2,5% al 77,5% e che per ora è ancora un progetto. Venerdì scorso, il presidente ha dato il via libera al testo e da allora il parlamento ha 30 giorni per approvarlo.
E da venerdì l’opposizione è subito scesa in piazza vestita a lutto, organizzando manifestazioni violente nella capitale Quito e in altre parti del paese. Le immagini dell’ex ministro della cultura del governo Correa, con il volto insanguinato, hanno infiammato il dibattito nelle reti sociali, dentro e fuori il paese. In prima fila, le classi medio alte intenzionate a non vedersi sfuggire neanche un briciolo della torta. Epperò cavalcano le proteste anche le frange più radicali che, dall’estrema sinistra, considerano Correa «un fascista mascherato» e il suo un governo «di burocrati e corrotti», e promuovono lo slogan «zero tasse». Tutti sono scesi in piazza al grido di «Fuera Correa, fuera».
I grandi media di opposizione hanno subito accostato le proteste a quelle che, nel 2005, hanno portato alla caduta dell’allora presidente Lucio Gutierrez. Nei dieci anni che hanno preceduto la vittoria di Correa, la piazza — e soprattutto le organizzazioni indigene — avevano mandato a casa una decina di presidenti. E Correa è al governo da quasi otto anni, sempre con un altissimo gradimento. Nel 2017 dovrebbe passare la mano, a meno che un referendum costituzionale non gli consenta un terzo mandato. Finora, nonostante il forte malumore da parte delle aree che gli rimproverano di aver tradito gli ideali di partenza, i sondaggi gli sono sempre favorevoli.
L’economia è finora cresciuta del 4% ogni anno, la povertà estrema è scesa dal 45% al 25% e la disoccupazione è intorno al 5%. Dopo la caduta del prezzo del petrolio e una crescita intorno all’1% prevista per il prossimo anno, Correa ha annunciato però un contenimento relativo della spesa sociale. Per far fronte a un deficit che — secondo la Standard & Poor’s — sarà superiore a quello del 2014, il governo ecuadoriano ha chiesto alla Cina — principale finanziatore — un prestito di 1.500 milioni di dollari.
Per il governo, ora è in atto un piano per destabilizzarela «revolucion ciudadana» da parte di frange che, in assenza di un programma per le elezioni del 2017, cercano di strumentalizzare la protesta cambiando il senso del testo di legge. Correa ha introdotto il tema anche al vertice Ue-Celac, che ha coordinato a Bruxelles in quanto l’Ecuador ha attualmente la presidenza di turno della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici. In quella sede, ha spiegato che, nonostante la «revolucion ciudadana» da lui diretta, che si è messa in marcia nel 2007, il 2% delle famiglie possiede ancora oltre il 90% della ricchezza nazionale. Questa legge — ha aggiunto — ha carattere redistributivo, serve a evitare le truffe delle multinazionali attraverso gli intermediari, e a portare un po’ più di benessere ai lavoratori: ai quali verrebbero devolute le tasse pagate dalle grandi imprese che realizzino, per esempio, un affare superiore al milione di dollari. Correa ha anche precisato che la stragrande maggioranza della popolazione non sarà tartassata, che ha a cuore il futuro delle «classi medie» e che men che meno saranno toccati i piccoli patrimoni familiari o «l’economia popolare e solidale».
Il presidente ecuadoriano si è rivolto ai cittadini attraverso la trasmissione settimanale Enlace ciudadano, mutuata da quella ideata da Hugo Chavez in Venezuela (Alò presidente). Questa volta, però, era in collegamento dall’Expo di Milano, dove ha inaugurato il padiglione Ecuador, applaudito dai suoi connazionali e dalle bandiere del suo partito, Alianza Pais. Le rimesse dei migranti — ha detto in quella sede — hanno permesso a un paese piegato dalla «crisi economica e finanziaria del 1999, frutto della deregulation dei mercati» di sopravvivere. Allora, in molti hanno dovuto fuggire dal paese «espulsi da modelli economici nefasti» per vivere come «esuli della povertà». Ma ora che il paese ha deciso di «pagare il debito sociale nei loro confronti», in molti sono tornati a riprendere a pieno titolo il proprio posto nella società.
Ieri, nella capitale e in diverse città del paese sono scesi in piazza anche i sostenitori del governo, dietro le bandiere verdi di Alianza Pais: contro le violenze organizzate «dall’oligarchia, da politici di estrema destra e dalle elite dei grandi media». Il verde «della speranza» contro «il nero della violenza». Una «manifestazione per l’allegria» davanti al palazzo del governo, al grido di: «Uh, ah, Correa no se va».
Dal Venezuela, il presidente Nicolas Maduro ha espresso solidarietà al suo omologo ecuadoriano. I movimenti dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, in un comunicato hanno denunciato la «guerra di debole intensità» intentata contro Caracas, Quito e La Paz, così come contro l’Argentina e il Brasile e supportata dai grandi media internazionali. Il segretario generale dell’Union de Naciones Suramericanas (Unasur), Ernesto Samper, ha dichiarato che l’organizzazione regionale si opporrà fermamente agli atti di violenza in Ecuador.
Geraldina Colotti
(Il Manifesto 16 giugno 2015)
«I movimenti in Ecuador hanno fatto cadere tre presidenti, Correa potrebbe essere il quarto». Non usa mezzi termini, Pablos Davalos, ex viceministro dell’economia in Ecuador. Se fosse ora nel suo paese, starebbe in piazza, con i manifestanti che, dal 15 giugno, sfilano gridando «Fuori Correa». Invece ha un incarico di ricerca universitaria a Grenoble e si propone di raggiungere le proteste appena terminata la missione. Lo abbiamo incontrato a Firenze, ospite di un dibattito sull’America latina organizzato dall’Arci. In italiano, i suoi libri sono pubblicati da una piccola casa editrice dalle risonanze zapatiste “Caminar domandando”, e compaiono a fianco dei testi di Esteva e di Zibechi. Un filone di pensiero che antepone «la resistenza dal basso al potere» e che, nelle affermazioni di Davalos, considera obiettivo prioritario e irrinunciabile «la lotta contro l’estrattivismo».
Gli abbiamo chiesto di motivare la sua pervicace opposizione al governo di Rafael Correa, sotto attacco dopo la proposta di legge per aumentare le tasse sull’eredità e sul plusvalore. Progetti che, per il governo, riguarderebbero solo quel 2% della popolazione che possiede «oltre il 90% delle risorse» e non colpirebbero né le classi medie, né la piccola proprietà famigliare. A guidare le proteste sono soprattutto i sindaci di opposizione, nella capitale Quito e a Guayaquil, e i cartelli che chiedono la cacciata di Correa non lasciano dubbi sugli interessi che le muovono. Dicono, «Impoverire i ricchi non fa ricchi i poveri», «Libertà di impresa» e «Non vogliamo essere come il Venezuela». E i militanti di Alianza Pais hanno denunciato la presenza delle destre venezuelane nelle manifestazioni, venute ad arringare la cittadinanza con improvvisi comizi nella metropolitana.
In piazza, però, sfilano anche alcune organizzazioni indigene e sindacali, e la tensione sale in vista dell’imminente visita del papa Bergoglio. Nonostante abbia un’ampia maggioranza parlamentare, Correa ha ritirato momentaneamente il progetto chiamando il paese a discutere. Una decisione approvata, secondo recenti inchieste, dal 70% della popolazione, che comunque rifiuta le proteste al 60,2%. Ma, per Davlos, Correa cerca solo di mantere il potere, e il suo discorso va «decostruito».
Davalos tiene ai suoi trascorsi di attivista nei movimenti indigeni. Ricorda che, nel 2005, come viceministro ha dovuto «affrontare uno scenario simile a quello della Grecia in cui il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avevano impoverito la popolazione, portato il paese in recessione e si dovette cacciarli e sospendere il pagamento del debito per riprendere in mano la nostra sovranità». Riprende anche i contenuti racchiusi nella costituzione ecuadoriana, nata in seguito a un ampio processo di consultazione popolare, «dall’idea di stato plurinazionale, ai diritti della natura».
Tuttavia, sostiene che il governo Correa, «pur non essendo neoliberista come i precedenti, sta consegnando gran parte dei territori indigeni all’estrattivismo, soprattutto cinese, reprime l’opposizione e imbavaglia il dissenso creando organizzazioni sociali amiche». Un progetto alternativo? «Aumentare i salari degli operai, eliminare le leggi che limitano il diritto di sciopero, applicare una vera riforma agraria e una tributaria che facciano pagare le tasse ai ricchi. Invece, col pretesto che occorre aumentare la produttività, Correa ha lasciato campo libero all’agrobusiness e ha fatto arricchire i più ricchi, un’oligarchia che si concentra in piccoli gruppi imprenditoriali a struttura famigliare e controlla in modo monopolistico l’economia».
Ma come si può pensare che un progetto simile possa coincidere con gli interessi della destra? Davalos risponde che «la confluenza di due proteste andrebbe comunque a vantaggio dei movimenti popolari, i quali non consentirebbero il ritorno a qualcosa di peggio». In Ecuador «non valgono gli stessi criteri utilizzati in Europa. Le comunità indigene non vogliono uno sviluppo per possedere più merci a scapito del buen vivir. E anche la nozione di classe media va inquadrata diversamente. Quella di oggi è composta da giovani ecologisti che hanno studiato e che vanno in bicicletta». Sono loro «e non gli operai o le popolazioni indigene ad aver appoggiato di più il progetto per preservare il parco Yasuni dall’estrattivismo». Correa «non è un socialista, ma solo uno che sta facendo il lavoro al posto del capitalismo. Perché certi progetti passano meglio con un governo che appare di sinistra piuttosto che con uno di destra».
Geraldina Colotti
(Il Manifesto 27 giugno 2015)
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